Eppure
Eppure.
Dovrebbe essere un avverbio.
Sì credo che lo sia, ma non posso controllare.
Mia sorella continua a non restituirmi lo Zanichelli che le prestai 10 anni orsono ed io non possiedo più un dizionario di italiano per controllare queste cose.
Avevamo un altro dizionario, questo però era suo fin dai tempi delle scuole medie: il Piccolo Palazzi: lo conserva gelosamente, con la sua mania tutta cancerina di conservare e recuperare le cose vecchie, o antiche, o che ti ricordano qualcosa.
Mania che ho sempre canzonato, io che pensavo di essere senza memoria e che non mi sono mai legato agli oggetti e poco anche alle persone.
Eppure anch’io qualche ricordo ce l’ho.
Eppure.
In fondo, a pensarci bene, mi sto comportando in maniera molto più conservatrice di quanto abbia mai fatto mia sorella.
Io ho comprato la casa della nostra infanzia.
Era conveniente farlo, ma i ricordi hanno giocato la loro parte.
Il luogo ora è piuttosto infernale: alle spalle abbiamo Via Cristoforo Colombo, una delle strade di maggior traffico di Bologna, e ci troviamo sulla rotta di decollo dell’aeroporto di Bologna.
La casa, ora che siamo in quattro, ci va stretta.
Eppure, quando eravamo piccoli io e mia sorella, ci abitavamo in cinque e mi sembrava una reggia.
Eppure.
Eppure voglio bene a questa casa.
Eppure voglio bene anche alla Via Cristoforo Colombo che, quando ero bambino, non esisteva, come non esisteva l’orribile colata di cemento che va sotto il nome di Centro di Servizi delle Imposte, come non esistevano il patetico condominio legge Andreatta, che avevamo battezzato la scatola di cartone.
L’unica cosa che esisteva al posto di tutto questo era un campo semi-incolto, di cui ancora resiste uno sparuto fazzoletto.
Era la mia grande prateria, dove cavalcavo con arco e frecce costruiti con le mie mani o, nei giorni di vento, facevo volare altissimi aquiloni costruiti insieme a mio padre, con carta di giornale e colla ottenuta bollendo acqua, farina e vino.
Eppure.
5AM